28 Nov 2022

Cina: la protesta mette alla prova il potere di Xi?

Rivolta contro zero-Covid

Negli ultimi giorni la Cina è stata attraversata da numerose e partecipate proteste contro la strategia zero-Covid imposta dal governo. A Pechino, Shanghai, Urumqi, Zhengzhou, Canton, Wuhan, Nanchino, Xi’an e altre città si sono osservati gruppi numerosi di persone (una giornalista presente la prima sera a Shanghai stimava già oltre mille persone) raccogliersi per dimostrare la propria opposizione alle ferree restrizioni a cui sono sottoposti i cinesi nel tentativo delle autorità di controllare il virus. Si tratta di un evento estremamente raro. Non tanto perché si siano verificate delle manifestazioni spontanee, che anzi in Cina avvengono non di rado. Quanto piuttosto perché l’estensione della protesta e la sua composizione è unica rispetto a quanto successo nell’ultimo decennio almeno, da quando Xi Jinping è arrivato al potere nel 2012.

Il Covid è un problema politico

La Repubblica Popolare è l’unico grande paese che ancora persegue l’obiettivo di eradicare completamente il virus. Anche se altri paesi hanno adottato la stessa strategia, come la Nuova Zelanda, con la comparsa delle varianti più contagiose e meno aggressive l’obiettivo dell’eradicazione è stato man mano abbandonato. In Cina questo non è successo e Pechino continua a seguire una linea dura di azzeramento basata su test di massa continui, tracciamento e messa in quarantena. In certi casi però il contagio spesso sfugge al controllo delle autorità locali, che allora per timore di ripercussioni da parte dello Stato centrale per inadempienza virano verso l’imposizione del lockdown. Interi quartieri e città da milioni di abitanti possono essere messi duramente alla prova dal momento che in più occasioni le autorità hanno dimostrato eccessiva durezza nel chiudere le persone in casa e grande inefficienza nell’organizzare la distribuzione dei beni di prima necessità alle famiglie.

L’ondata di proteste si è verificata nei giorni di massima diffusione del virus in Cina. Le infezioni hanno sorpassato la soglia giornaliera dei 30.000 nuovi positivi segnando per quattro giorni consecutivi ogni volta un nuovo record per la Repubblica Popolare. La situazione epidemiologica è peggiore di quella della scorsa primavera, quando Shanghai è stata messa in lockdown per circa due mesi. Nonostante si tratti di numeri minuscoli per un paese da 1,4 miliardi di abitanti come la Cina, il paese si sta apprestando a ripristinare il lockdown in molte zone.

Quello che però si vede in questi giorni è un fenomeno più complesso della semplice dimostrazione di rabbia e frustrazione per delle restrizioni imposte come quando il virus era quello di Wuhan. L’opposizione alla politica draconiana è il mantello sotto il quale si legano una moltitudine di istanze e rivendicazioni diverse. Raramente si verificano solidarizzazioni tra proteste diverse in Cina, dove l’apparato coercitivo dello Stato si è fatto negli anni sempre più pervasivo e autoritario, e questa è una di quelle.

L’origine della protesta

Le proteste sono partite dalla città di Urumqi, la capitale dello Xinjinag. Fin da agosto la capitale della provincia occidentale cinese è sottoposta alle restrizioni anti-Covid. La causa scatenante delle manifestazioni spontanee che hanno attraversato la città è stata un incendio divampato giovedì scorso in una palazzina, dove i residenti erano rinchiusi in casa. I video diffusi online però hanno mostrato che i pompieri hanno avuto difficoltà a raggiungere l’edificio e spegnere l’incendio probabilmente per via delle barriere fisiche predisposte attorno alla struttura. Dieci delle persone che vivevano nella palazzina sono morte nell’incendio: secondo i residenti del quartiere contattati dalla BBC la chiusura in casa ha impedito la fuga dei residenti, ma le autorità contestano questa versione dei fatti.

Le proteste scoppiate a Urumqi hanno visto la popolazione scendere in strada venerdì sera per gridare ai dàbái (gli operatori sanitari e le forze di sicurezza vestiti con la tuta bianca) di revocare le restrizioni. Dai video circolati si riesce a vedere che i manifestanti intonavano slogan come jiěfēng, traducibile come “interrompete il lockdown”, e hanno poi sfondato il cordone della polizia. Alcune immagini hanno ripreso una larga folla di dimostranti dirigersi vero la sede del governo cittadino, muniti di bandiere della Repubblica popolare e intenti a cantare l’inno cinese. Sabato mattina le autorità di Urumqi hanno annunciato che il lockdown sarà revocato per gradi.

Questo è uno dei tipi di dimostrazione che sono convogliati nella grande ondata di proteste di questi giorni. Le rivendicazioni sono di natura essenzialmente locale (come la gestione del lockdown a Urumqi) e i dimostranti nell’esternare la propria rabbia rivendicano anche la lealtà della propria contestazione con simboli e canzoni (come la bandiera o l’inno). Si tratta di una scelta che mira a rendere fin da subito chiaro alle autorità che le proteste non vogliono colpire il partito comunista o la Repubblica Popolare, ma devono essere intese come legittima espressione dell’esigenza di un cambiamento. Questo è un tipo di proteste già avvenuto in Cina, molto spesso anche slegato dal Covid.

Le proteste di Urumqi sono molto significative, anche per l’altissimo livello di sorveglianza a cui è sottoposta la regione, ma non sono state le prime di questa ondata. Pochi giorni prima, a Canton e a Zhengzhou, una folla di lavoratori ha infranto le restrizioni ed è scesa in strada, arrivando anche al confronto violento con le forze di polizia. Canton è una delle principali città manifatturiere della Cina e da qualche settimana è in lockdown. Il 14 novembre, in diversi quartieri della città, gruppi di operai migranti giunti da altre zone del paese hanno abbattuto le barriere di contenimento istallate in alcune parti della città. Lo scoppio della rabbia va ricondotto alle difficoltà economiche in cui questi lavoratori, a cui sono negati molti servizi di assistenza sociale in quanto originari di altre zone della Cina, devono affrontare quando le fabbriche si fermano.

Pochi giorni dopo è stata la volta dei circa 200.000 operai della fabbrica di Foxconn situata a Zhengzhou, dove vengono prodotti gran parte degli iPhone di Apple. Da settimane l’impianto si trova in regime di “bolla”, che significa che le linee di produzione rimangono aperte ma gli operai lavorano e vivono senza mai uscire dal complesso industriale. Il mese scorso la malagestione della situazione interna alla fabbrica ha portato molti lavoratori a scappare a piedi. Il 23 novembre invece le tensioni sono esplose e gli operai si sono rivoltati, confrontando la polizia e danneggiando il complesso. Stando ai video diffusi, le rivendicazioni sembrano ruotare attorno alle pessime condizioni in cui è tenuta la fabbrica e al mancato compenso promesso ai lavoratori dalla direzione.

Le proteste nell’occhio del ciclone

Ma le proteste che hanno avuto l’eco più vasta sono quelle di questi ultimi giorni, che hanno interessato le università, Pechino e soprattutto Shanghai. La sera di sabato a Wulumuqi (Urumqi) road, Shanghai, si è radunata spontaneamente un’ampia folla per commemorare le dieci vittime dell’incendio che presto però si è trasformata in una protesta contro la strategia zero-Covid. Tra gli slogan cantati c’era anche “non vogliamo i test anti-Covid vogliamo la libertà”, un’espressione presa in prestito dal clamoroso striscione contro il “traditore Xi Jinping” comparso a Pechino lo scorso mese pochi giorni prima dell’inizio del XX Congresso del partito. A Pechino invece moltissimi dimostranti hanno protestato esponendo dei fogli bianchi per criticare l’impossibilità di dire alcunché dovuta alla censura, mentre altri sarcasticamente chiedevano “ancora lockdown” e dicevano “vogliamo fare i test anti-Covid” per aggirare ironicamente i divieti della polizia.

Molti nella folla hanno gridato slogan come “abbasso il partito comunista cinese” e “abbasso Xi Jinping”. Altri invece portavano con sé il ritratto di Mao Zedong o la bandiera cinese, e hanno intonato l’inno nazionale e la canzone socialista per eccellenza L’Internazionale. Queste proteste, che rappresentano soprattutto i ceti metropolitani e i giovani studenti universitari, sono quelle a più ampio respiro tra le molte osservate in questi giorni. Per questi ceti urbani e tendenzialmente liberali, la strategia zero-Covid è la materializzazione più concreta della svolta autoritaria operata nel paese da Xi Jinping, che ha appena ricevuto l’investitura per un inedito terzo mandato da segretario generale del partito.

Al momento è ancora difficile discernere quale sia la sensibilità di questa componente della protesta: da un lato alcuni slogan fanno pensare a un’ostilità radicale verso le autorità del partito, dall’altra il rimando a simboli e temi classici del socialismo cinese potrebbe anche essere interpretata come una richiesta di aggiustamento rispetto all’attuale traiettoria autoritaria su cui Xi Jinping ha posto la Cina. Per quanto repressiva fosse anche prima dell’avvento di Xi, grazie al periodo di riforme e apertura la Repubblica Popolare si era trasformata in un paese relativamente più libero di oggi, dove esisteva uno spazio per le organizzazioni autonome della società civile, dove c’era una generica comprensione per alcune forme di rivendicazione e dove la stampa non era ancora stata soffocata. Non è da escludere che una parte della protesta auspichi il ritorno alla mentalità che aveva reso possibili quei tempi.

Dove porteranno queste proteste non è ancora chiaro, anche perché non è ancora chiaro quale sia il substrato politico dominante da cui vengono alimentate. Certo è che l’opposizione alla strategia zero-Covid ha creato un’ampia coalizione degli scontenti, che parte dai distretti industriali per arrivare alle megalopoli della Cina passando per le numerose città di provincia dove si sono registrate altre proteste. Solidarizzando su scala nazionale senza una rete organizzativa alle spalle, i dimostranti hanno dato vita a qualcosa che nella Repubblica Popolare non si vedeva da veramente tanto tempo.

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