23 Dic 2022

Afghanistan: perché escludere le donne dall’università indebolisce i Talebani

La crisi

Presentato come atto di forza, necessario per istituire un “vero sistema islamico”, il decreto che sospende l’accesso universitario per le studentesse è un segno di debolezza dell’Emirato islamico dei Talebani, che ne escono più divisi e isolati.

 

“Siete informati di dover sospendere l’educazione delle ragazze fino a nuovo ordine”. Con una lettera proveniente dal ministero dell’Istruzione superiore e indirizzata a tutte le università pubbliche e private dell’Afghanistan, il 20 dicembre l’Emirato islamico ha annunciato la sospensione dell’accesso all’università per le studentesse. Il documento porta la firma del mawlawi Neda Mohammad Nadim, nominato ministro appena due mesi fa. Esponente della componente più radicale dei Talebani, già a capo della polizia della provincia orientale di Nangarhar e poi governatore della provincia di Kabul, Nadim si è distinto per aver criticato i costumi troppo disinvolti della capitale afghana, invocando maggiore severità da parte delle autorità. Ricompensato con un ministero di peso dal quale passa il tentativo di ottenere l’egemonia culturale nel Paese, ha spiegato che la decisione del 20 dicembre è stata presa dopo che “i più importanti studiosi del Paese hanno valutato il curriculum e l’ambiente universitario dal punto di vista della sharia, e dopo che io stesso ho presentato il loro rapporto, con alcuni suggerimenti, alla leadership dell’Emirato”, ad Haibatullah Akhundzada, l’Amir al-muminim, la guida dei fedeli, il leader supremo. “Se Dio vuole”, ha proseguito il ministro, presto i Talebani riusciranno a far combaciare il diritto allo studio con “un ambiente rispettoso della sharia”.

Presentato come compimento di sacri principi religiosi, come atto necessario all’instaurazione di un “vero sistema islamico”, l’annuncio del ministro Neda Mohammad Nadim è destinato però a indebolire l’Emirato, approfondendo lo scontro, già in corso, su tre fronti diversi. Il primo fronte è quello tra i Talebani e la società afghana, due attori che viaggiano su binari diversi come dimostrano le prime manifestazioni organizzate nel Paese nonostante la repressione, così come le dimissioni di decine di docenti universitari, in segno di protesta. Il secondo è quello tra l’Emirato e la comunità internazionale, sempre più problematico e non soltanto con il mondo euro-atlantico più attento ai diritti negati, come dimostrano le condanne pressoché unanimi da parte delle cancellerie straniere e degli organismi internazionali, incluse quelle dell’Organizzazione della conferenza islamica e di Ahmed el-Tayeb, il grande imam della moschea al-Azhar del Cairo, principale centro di indirizzo teologico dell’Islam sunnita.

Il terzo fronte nel quale si approfondisce lo scontro è quello, meno esplicito ma cruciale, interno alla leadership dell’Emirato, sul quale ci soffermiamo. La decisione del 20 dicembre va letta infatti innanzitutto dentro il più ampio processo di transizione dei Talebani dalla lotta armata al potere istituzionale. E il terreno dell’analisi va sgombrato dagli equivoci. La decisione non è un diversivo per dirottare l’attenzione dai tanti problemi del Paese: la profonda crisi umanitaria, la contrazione dell’economia, l’isolamento e il mancato riconoscimento dell’Emirato, i dissidi interni alla leadership, l’incapacità di adeguarsi ai cambiamenti e alle richieste della società afghana, i rapporti problematici con i vicini iraniani e pachistani, sfociati anche in conflitti a fuoco lungo i posti di confine.

Allo stesso modo, non si tratta né di una svolta né di una decisione obbligata, come suggeriscono quanti, in modo riduttivo, ripetono “sono sempre gli stessi Talebani”. La decisione del 20 dicembre non è una svolta perché porta a maturazione un percorso di lenta, graduale negazione ed erosione dei diritti delle donne. Negli ultimi 16 mesi, hanno ricordato con un comunicato congiunto i governi di molti Paesi occidentali tra cui quello italiano, “i Talebani hanno applicato non meno di 16 tra decreti ed editti che, tra le altre cose, riducono la mobilità per le donne, le espellono dai luoghi di lavoro, richiedono la copertura integrale, vietano loro l’uso di spazi pubblici come parchi e palestre…”. Ma non è neanche una scelta obbligata: è il frutto di una lotta di potere interna i cui esiti non sono disegnati a tavolino e che è particolarmente intensa, benché sotterranea, dall’estate del 2021, da quando i Talebani hanno riconquistato Kabul e l’Afghanistan.

Volendo schematizzare, il ritorno al potere si deve a tre gruppi diversi, solo in parte sovrapponibili: i negoziatori pragmatici, abituati alle comode sedi di Doha e rassicuranti verso gli interlocutori internazionali, tanto da ottenere il vantaggioso accordo di Doha del febbraio 2020; i comandanti militari sul terreno, i quali per anni hanno tenuto in scacco i soldati stranieri e quelli afghani, conquistando territori su territori e tenendo i rapporti con i militanti di basso rango; e infine la leadership religiosa, i clerici che hanno legittimato il jihad, ammantandolo di sacralità divina, giustificando anche – come ha fatto l’attuale leader supremo, Haibatullah Akhundzada – gli attentati suicidi, e che sono rimasti perlopiù lontani dai campi di battaglia e dal fronte negoziale, fungendo però spesso da mediatori tra le due altre componenti, divise su obiettivi strategici e tattiche da impiegare per ottenere la vittoria. Arrivata nell’agosto 2021.

Da allora, è in corso un processo di assestamento e di posizionamento. Ciascun gruppo ha rivendicato spazio, potere, poltrone, danari, cercando dei benefici particolari ma tentando anche di orientare la rotta del nuovo Emirato, dal punto di vista dell’architettura istituzionale, delle politiche amministrative, della visione del mondo che esprimono. Tra i più capaci di dettare la linea attraverso provvedimenti specifici, molti dei quali su temi di rilevanza sociale e simbolica, ci sono i clerici ultra-conservatori del Sud, che hanno approfittato della debolezza del leader supremo Haibatullah Akhundzada, portandolo dalla propria parte o convincendolo a esporre con maggiore convinzione il proprio background di custode ortodosso della sharia e già responsabile delle Corti di giustizia talebane.

Due decisioni politiche assunte nelle ultime settimane dimostrano quanto questa componente, minoritaria ma ben organizzata, sia capace di indirizzare il corso dell’Emirato e di modellarne l’immagine dentro e fuori dal Paese. La prima è quella di rivendicare la “giustizia talebana”, con esibizioni pubbliche negli stadi di calcio. Annunciata da un comunicato ufficiale del portavoce dell’Emirato, Zabihullah Mujahed, alla prima esecuzione pubblica che si è tenuta il 6 dicembre 2022 nello stadio di Farah hanno partecipato come spettatori d’onore, tra gli altri, alcuni giudici della Corte Suprema, il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi, quello degli Interni Sirajuddin Haqqani, il ministro per le Virtù e contro il vizio Mohammad Khaled Hanafi, il vice ministro dell’Economia Abdul Ghani Baradar, l’uomo che ha condotto il negoziato a Doha tra Washington e i Talebani.

La seconda decisione, da leggere insieme alla precedente, riguarda appunto l’esclusione delle studentesse dalle università, che fa seguito a molte altre restrizioni e in particolare alla chiusura da 460 giorni circa delle scuole superiori femminili in quasi tutto il Paese. Due decisioni che ci conducono alla stessa matrice: l’idea che l’Emirato islamico è sovrano se persegue l’autarchia assoluta, come spiegato nel luglio scorso dal leader dei fedeli, Haibatullah Akhundzada, nel corso della Loya Jirga di Kabul, quando ha dichiarato: “non ci saranno compromessi sulle leggi prescritte dalla sharia. Il mondo non dovrebbe interferire in Afghanistan, un Paese sovrano e indipendente”. Per poi aggiungere: “Anche se useranno la bomba atomica, non faremo neanche un passo contrario a quel che chiede Allah e stabiliremo un vero sistema islamico”.

La presenza nello stadio di Farah, nel corso dell’esecuzione della prima condanna a morte pubblica, anche di alcuni esponenti dell’ala pragmatica, più aperta ai compromessi con l’esterno, non deve trarre in inganno. Il movimento dei Talebani è diviso, in particolare sull’istruzione per le ragazze. Perfino i tre “vice” del movimento – il ministro degli Interni mullah Yaqub figlio del fondatore mullah Omar, il ministro della Difesa Sirajuddin Haqqani figlio del fondatore del network Haqqani Salaluddin, il vice primo ministro dell’Emirato mullah Baradar – si sono dichiarati apertamente o hanno fatto intendere di essere a favore dell’istruzione femminile. Collocandosi sul fronte opposto rispetto non solo al leader supremo, ma anche ad alcuni giudici della Corte Suprema, al ministro della Giustizia Abdul Hakim, a quello degli Affari religiosi Nur Muhammad Saqeb, a quello per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio, Mohammad Khaled Hanafi, convinti che non ci possa essere istruzione per le donne se non con una rigida separazione con gli uomini e con un’attenta riforma dei curricula di studio, che ora veicolerebbero modello occidentali. Tra questi ultimi figura anche il ministro dell’Istruzione superiore, il mawlawi Neda Mohammad Nadim, che già prima del decreto del 20 dicembre aveva condannato la promiscuità nelle università e la persistenza di valori occidentali in seno alla società afghana. Un punto che molti osservatori, concentrati solo sul fronte militare, non hanno colto: per 20 anni, dal rovesciamento del primo Emirato all’instaurazione del secondo, il conflitto in Afghanistan non è stato solo una guerra fatta con le armi, ma anche un conflitto di visioni del mondo e coordinate culturali.

Le divisioni tra i Talebani vengono perlopiù tenute nascoste, ma alcune volte sono sfociate in botta e risposta pubblici tra esponenti delle diverse aree, oppure in decisioni e contro-decisioni, quei testacoda amministrativi che fanno apparire in superficie i dissidi nascosti. Il caso più emblematico è quello del 23 marzo 2022, quando il ministero dell’Istruzione ha annunciato la riapertura delle scuole superiori femminili, richiuse poche ore dopo. Ma ci sono molti altri casi, minori, come quello di inizio settembre, quando le autorità governative della provincia di Paktia – area sotto il controllo degli Haqqani – hanno annunciato la riapertura di 5 scuole superiori femminili nei distretti di Gardez e di Chamkani, dopo che i consigli tribali e le autorità locali, su pressioni della cittadinanza, ne avevano chiesto la riapertura. Una riapertura durata poco, fino all’intervento di Kabul – meglio dire di Kandahar -, che ne ha nuovamente imposto la chiusura.

La decisione del 20 dicembre di sospendere a livello nazionale l’accesso alle ragazze nelle università rafforzerà dunque le divisioni interne, oltre ad alimentare il conflitto sociale con la popolazione afghana, un conflitto che mina alle fondamenta la stabilità dell’Emirato. Inoltre, priva i Talebani di quell’ambiguità che, già al tempo del primo Emirato, ha concesso alle varie anime del movimento di trovare accomodamenti diversi con comunità differenti. L’ambiguità delle norme, gli ampi margini di interpretazione, l’incertezza su ciò che è solo consigliato o imposto hanno sempre concesso flessibilità e consentito di tenere insieme le spinte centrifughe interne e di salvaguardare, almeno in parte, il rapporto con la società.

La decisione del 20 dicembre compromette tutto questo. Se ne è accorto anche l’ex presidente Ashraf Ghani. Dalla sua fuga da Kabul il 15 agosto 2021, molto contestata e molto chiacchierata anche per le accuse – mai provate – di aver portato con sé valigie piene di dollari, si è mantenuto prudente. Pochissime dichiarazioni, nessuna apparizione pubblica. Vita riservata e agiata negli Emirati arabi. Pochi giorni fa però si è fatto sentire, condannando con un comunicato l’apartheid di genere dell’Afghanistan sotto i Talebani: “Attualmente, l’unica questione su cui tutti gli afghani concordano è il diritto all'istruzione e al lavoro per le donne. Credo che i Talebani non possano opporsi a questo consenso nazionale e popolare” ha scritto, prima di affondare il colpo, chiamando quasi alla rivolta: “Unendo e rafforzando i propri ranghi, la giovane generazione può distruggere l'attuale tirannia per i prossimi cento anni”.

L’ex presidente Ashraf Ghani, la cui legittimità era già scarsa ai tempi della Repubblica islamica e il cui profilo politico è stato ulteriormente fiaccato dalla fuga nell’agosto 2021, non potrà raccogliere consensi sufficientemente ampi intorno a sé per ipotetici cambi di regime. Ma ha ragione su un punto: saranno i giovani e le giovani afghane, con le loro legittime richieste, a far scricchiolare le fondamenta dell’Emirato islamico, già fragili per le forti tensioni interne al movimento dei Talebani.

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