1 Feb 2021

Myanmar, ritorno al passato

Il golpe

Colpo di stato a Naypyidaw. I militari arrestano Aung San Suu Kyi e impongono lo stato di emergenza per un anno. La leader arrestata: “Protestate, vogliono riportarci alla dittatura”.

 

Giovedì 4 febbraio ore 18

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Myanmar: l'ora del golpe

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Le forze armate del Myanmar (in birmano, Tatmadaw) hanno messo in atto un colpo di stato, arrestando la leader di fatto Aung San Suu Kyi e tutti i vertici della Lega nazionale per la Democrazia (LND), vincitrice delle elezioni dello scorso novembre. L'esercito ha istituito lo stato di emergenza per un anno, al termine del quale – stando ai militari – si terranno libere elezioni e ha trasferito tutti i poteri nelle mani del leader militare Min Aung Hlaing. Il golpe, avvenuto alle prime ore del mattinodi lunedì 1 febbraio, segue settimane di polemiche e accuse di frodi elettorali rivolte dai militari all’LND. In realtà, il voto ha confermato l’estrema popolarità del partito, che ha ottenuto 920 seggi del parlamento su 1170. Negli ultimi cinque anni, Suu Kyi e l’LND hanno guidato il paese dopo essere stati democraticamente eletti nel 2015. Questa mattina, il governo avrebbe dovuto presentarsi in parlamento per iniziare il suo secondo mandato. Questa settimana il nuovo Parlamento avrebbe dovuto accettare ufficialmente il risultato elettorale e approvare il governo.

Il colpo di stato fa fare al paese un passo indietro. Benché l’esercito sia a capo del paese dal 1962, dal 2011 il paese aveva registrato qualche apertura democratica, tra cui la possibilità di organizzare le elezioni parlamentari. La ‘convivenza’ tra istituzioni democraticamente elette e forze armate prevedeva comunque che queste ultime detenessero ampi poteri. La Legge Fondamentale inoltre impedisce ad ogni birmano i cui figli siano cittadini stranieri di accedere al ruolo di Presidente e Vice-presidente. Una norma scritta espressamente per precludere a  Suu Kyi – che ha due figli entrambi di nazionalità britannica – di accedere ai vertici dello stato.

 

Fine della transizione democratica?

Se il voto di novembre può essere letto come una significativa sconfitta dei militari, in realtà la presa del Tatmadaw sul paese è fuori discussione. In base alla Costituzione del 2008, il 25% dei seggi in parlamento spetta per legge al Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo (USP), espressione delle forze armate, e queste ultime controllano anche i ministeri più importanti: Interni, Difesa e Controllo delle frontiere. Inoltre, i militari hanno completa autonomia di gestione sugli investimenti internazionali e godono di ampia tutela politica per i crimini di guerra. Finché la Costituzione rimarrà la stessa quindi – ed è difficile emendarla considerato che un quarto del parlamento è espressione dei loro interessi – i militari manterranno controllo e potere.

Al contrario, la decisione di intervenire con la forza potrebbe causare proteste di piazza, ripercussioni nei rapporti commerciali con l’estero e portare il paese ad una condizione di pariah internazionale. Ma allora cosa ha spinto il Tatmadaw a intervenire? “Le azioni dei militari mirano a riportare il paese sotto una dittatura” avverte un comunicato stampa dell’LND che porta la firma di Suu Kyi. “Per questo chiedo al popolo di non accettare quello che sta succedendo, rispondere e protestare massicciamente contro le forze armate”. Intanto l’esercito ha annunciato di volere indire nuove elezioni “libere e regolari” alla fine dello stato di emergenza di un anno. In queste ore, il Myanmar è bloccato: sospesi i voli, chiuse le banche e i servizi di prelievo automatici fino a nuovo ordine: anche Internet è fuori uso. 

 

Chi è Aung San Suu Kyi?

Ai tempi della dittattura militare, Aung San Suu Kyi ha passato 15 anni gli arresti domiciliari. Figlia di un eroe dell’indipendenza della Birmania dall’ex potenza coloniale britannica, Generale Aung San, è stata insignita del Premio Nobel per la pace nel 1991. Successivamente però, la sua immagine di faro della non violenza e dei diritti umani si è infranta contro il dramma della persecuzione della minoranza musulmana Rohingya.

Il Myanmar, a maggioranza buddhista, si rifiuta infatti di riconoscere i diritti civili ai Rohingya, da decenni vittime di politiche discriminatorie e di azioni violente da parte delle forze di sicurezza. Si ritiene che dalla fine degli anni ’70 ad oggi siano circa due milioni e mezzo i Rohingya che sono stati costretti a lasciare il paese. Repressioni e un vero e proprio tentativo di pulizia etnica nello stato occidentale di Rakhine spinsero nel 2017 circa 740.000 persone alla fuga verso il Bangladesh. Sulla vicenda è in corso un’inchiesta della Corte Penale Internazionale, e funzionari delle Nazioni Unite hanno affermato che gli incendi di massa dei villaggi, completi di esecuzioni sistematiche e stupri, sono stati effettuati con intenti genocidari. Anche durante il governo di Suu Kyi, i Rohingya hanno continuato ad essere perseguitati, totalmente esclusi dal processo elettorale, privati della cittadinanza e di qualsiasi forma di diritto.

 

 

Condanne internazionali?

Non appena la notizia del colpo di stato si è diffusa, sono fioccate le condanne: se Washington “si oppone a qualsiasi tentativo di modificare l'esito delle ultime elezioni o di impedire la transizione democratica a Myanmar”, il neo Segretario di Stato USA Antony Blinken ha chiesto che vengano rilasciati tutti i funzionari di governo e i leader della società civile, affermando che gli Stati Uniti “sono al fianco del popolo della Birmania [sic] nelle loro aspirazioni per la democrazia, la libertà, la pace e lo sviluppo”. Anche l’Unione Europea, attraverso il presidente del Consiglio Charles Michel, ha condannato il golpe e chiesto ai militari di “rispettare il processo democratico”. La condanna internazionale, tuttavia, non è stata unanime e al momento sia la Russia che la Cina – secondo investitore straniero nel paese dopo Singapore – insistono sul fatto che si tratti di “sviluppi interni al paese” e si dicono “attenti a monitorare”. Quel che è certo è che il colpo di stato in Myanmar non deve stupire troppo. La performance sbalorditiva dell’LND alle elezioni di novembre aveva umiliato i militari e spostato pericolosamente l'equilibrio del potere verso Aung San Suu Kyi. Oggi, a 74 anni, ‘The Lady’ avrebbe potuto farsi forte dei numeri in parlamento e del sostegno di cui gode in patria per ottenere anche l’ultimo, ambito ruolo di presidente. E così i generali hanno messo da parte la transizione e fatto un salto indietro nel passato. Costringendo il paese a farlo con loro.  

 

 

Il commento

Di Giulia Sciorati, ISPI Associate Research Fellow, Programma Cina

 

Il colpo di stato in Myanmar non è stata una vera e propria sorpresa. La tornata elettorale dello scorso novembre, infatti, stravinta dalla "Lega per la Democrazia", il partito della leader de facto Aung San Suu Kyi, aveva già intensificato le tensioni tra esercito e società civile. Il Myanmar è oggi, ancora di più, sia un paese che si allontana da quei processi di democratizzazione portati in auge dai governi occidentali sia una società sempre più radicata in storiche divisioni etniche e religiose. Dopo Covid-19, il conflitto etnopolitico in Asia rischia di diventare, ancora di più, una delle grandi sfide alla sicurezza del continente, in un'epoca dove le disuguaglianze ne acuiscono già le tensioni latenti.

 

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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