1 Feb 2022

Myanmar, un anno dopo: cala il buio, sale la tensione

Dopo il golpe

Il primo febbraio del 2021 il Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, annunciava al mondo intero il cambio di regime in Birmania. In una sola mattina i militari arrestano i vertici della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito che per la seconda volta in cinque anni aveva vinto liberamente le elezioni, ottenendo nel novembre del 2020 circa l’80% dei seggi in Parlamento. In poche ore i vertici dell’NLD vengono delegittimati e arrestati, inclusa Aung San Suu Kyi, leader indiscussa del partito, simbolo della lotta contro i militari e amatissima dal suo popolo. Si apre così una stagione di lotta che ha visto scendere nelle strade uomini, donne e soprattutto tanti ragazzi e ragazze della generazione Z (i giovani dai 14 ai 24 anni).

Dopo le manifestazioni pacifiche delle prime settimane seguite al golpe, è divenuto presto chiaro che lo scontro con i militari sarebbe stato duro e senza sconti. Il Tatmadaw è ormai impegnato in una guerra civile contro il Governo di Unità Nazionale (NUG), un esecutivo ombra formato in larga parte da parlamentari dell’NLD, ma anche da rappresentanti etnici, come il presidente ad interim Duwa Lashi Ladel del Kachin, e da componenti della società civile.

 

La resistenza del People’s Defence Force

I militari, che dal colpo di stato del 1962 hanno di fatto guidato il Paese, non si aspettavano una resistenza così tenace e duratura. L’opposizione ai militari ha infatti prodotto il superamento di storiche diffidenze tra la maggioranza Bamar, dominante nell’NLD, e i rappresentanti dei gruppi etnici minoritari, per anni in guerra con il governo centrale Bamar. Dall’incontro tra la società civile e il NUG è nato il PDF (People’s Defence Force), un vero e proprio esercito di resistenza, rinsaldato dall’alleanza con le organizzazioni etniche armate.

“E’ difficile fare una stima dei numeri del PDF”, racconta Aung Kyaw, advisor di Alliance For Democratic Myanmar, una ONG con molti legami internazionali nata con lo scopo di sostenere il ritorno del Paese su una traiettoria democratica.L’esercito di resistenza è composto da gruppi indipendenti che non rispondono a un’autorità unica. Si tratta di circa 40 mila unità, a cui vanno aggiunte quelle della regione del Sagaing (stato nel centro del Paese particolarmente strategico perché vicino alla capitale Naypyidaw e quindi al potere militare), dove il PDF è molto numeroso, con almeno altri 20 mila uomini. Esiste poi una larga rete di sostegno nei grandi centri urbani, ma di difficile quantificazione. A questi bisogna unire le truppe delle componenti etniche come il gruppo armato del KNPP (Karenni National Progressive Party) dal Kayah, e il CNF (Chin National Front), gruppo armato del Chin, due Stati che si sono schierati apertamente con il PDF. Anche il KIA (Kachin Independence Army, l’esercito del Kachin, lo stato più settentrionale della ex Birmania) pur non dichiarandolo, è molto attivo e sta combattendo in Sagaing, accanto al PDF e ad alcune brigate del KNU (Karen National Union, organizzazione politica e armata che lotta per l’autonomia dell’etnia Karen). Mettendo assieme tutto questo, stimiamo che la Resistenza armata birmana si aggiri fra i 60mila e gli 80mila uomini”.

Secondo Thant Myint U, storico e tra i maggiori esperti del Paese, l’esercito birmano può contare su circa 300.000-350.000 uomini, di cui però solo la metà con reali capacità di combattimento. Una lotta all’apparenza impari, anche perché i militari birmani sono fra gli eserciti meglio equipaggiati dell’Asia.

Nonostante ciò, per Aung Kyaw “le difficoltà del Tatmadaw sono evidenti, come dimostra la carenza di risorse umane e l’impiego di anziani e donne nelle proprie operazioni. La giunta militare non era preparata ad una guerra così estesa, e sono numerose le testimonianze nel PDF che parlano di vittorie relativamente facili davanti ad un esercito così potente. I militari presentano molte difficoltà anche sul fronte delle defezioni e delle finanze, con i rifornimenti di benzina per aerei che iniziano ad essere un problema a causa del protrarsi della guerra. Chiaramente, le cose cambiano quando si passa ai bombardamenti aerei, di fronte ai quali i mezzi della resistenza sono molto limitati, fatta forse l’eccezione per il KIA.”

 

Processi e condanne a morte come arma politica: la repressione del Tatmadaw

Difficoltà che hanno complicato ulteriormente la posizione di Aung San Suu Kyi. Condannata a sei anni di carcere per detenzione illegale di walkie-talkies e per violazione delle leggi sul Covid, la Lady deve essere ancora giudicata per presunta corruzione e abuso di autorità connesso a questioni immobiliari, frodi elettorali e violazione dell’Official Secrets Act, reati che prevedono una pena di 14 anni. A questi capi d’imputazione si aggiungono cinque nuove  accuse riguardanti il noleggio e l’acquisto di un elicottero. Umiliata, costretta ormai ad indossare l’uniforme da carcerata, “è sempre più evidente l’intenzione dei militari di tenerla fuori dall’agone politico,  di renderla invisibile”, come ci aveva raccontato il suo avvocato Khin Maung Zaw, che ormai non può più contattarla né parlare con la stampa.

Ma sono le due recenti condanne a morte di Phyo Zeyar Thaw, ex cantante pop e parlamentare dell’NLD, e del noto attivista pro democrazia Ko Jimmy, star della generazione 88 a far meglio capire la nuova stretta del regime. I militari hanno optato per una linea ancora più dura sul fronte degli arresti e delle condanne, come provano i dati di AAPP (Assistance Association for Political Prisoners), l’Ong con base a Bangkok che tiene il triste registro dei morti e dei prigionieri politici: 1.495 i primi, quasi 12.000 i secondi.

 

L’offensiva militare della giunta

Se da un lato continua l’attacco ai leader politici dell’opposizione, dall’altro nel corso degli ultimi 2 mesi il Tatmadaw è diventato sempre più aggressivo. A Sagaing, i militari hanno incenerito undici abitanti di un villaggio, compresi bambini che, come riportano diverse fonti, erano ancora vivi.

La Vigilia di Natale, nello stato di Kayah (un’area dove metà della popolazione è cristiana), le truppe del regime hanno bruciato 31 persone nei loro veicoli, dopo averle fermate a un posto di blocco mentre cercavano di fuggire dagli scontri fra l’esercito e le forze di resistenza. Un episodio la cui brutalità è confermata da Daniel James di Myanmar Witness, un’organizzazione con sede a Londra che verifica i fatti incrociando i dati satellitari con le foto e i video postati sui social.

Infine, Loikaw (150 mila abitanti), la capitale dello stato di Kayah, nel Myanmar orientale, è stata bombardata per un’intera settimana. Si tratta del più duro bombardamento di un grande centro urbano dal colpo di stato del primo febbraio, un’azione che ha costretto almeno metà della popolazione alla fuga.

L’offensiva militare, che è stata particolarmente virulenta soprattutto nello stato di Kayah, ed è tesa a schiacciare i molteplici gruppi di resistenza anti-golpe, e a rompere i loro legami con il Karenni National Progressive Party (KNPP). Ma una situazione di forte insicurezza si vive anche nelle città. Fra gli abitanti di Mandalay e Yangon, i due maggiori centri urbani del Paese, si è diffusa la paura di essere i nuovi obiettivi dei bombardamenti dei militari.

In questo contesto di forte tensione, il Burma Final Revolution Armed Forces (uno dei gruppi di resistenza armata di Yangon) ha avvertito la cittadinanza di evitare i luoghi dove sono presenti i militari, perché intende passare alla controffensiva. Di recente, tre gruppi di resistenza (Yangon Underground Force, South Side Underground e Freedom From Fear Youths) hanno dichiarato un’alleanza sotto l’unità di comando e controllo del NUG di Yangon, che così arriverebbe a controllare circa 35 gruppi di resistenza locale.

 

La situazione umanitaria: economia e società al collasso

Il colpo di Stato e la pandemia hanno naturalmente avuto un effetto devastante sulla situazione economica. Secondo la World Bank, l’economia ha perso circa il 30% della crescita. Nell’ultimo anno milioni di persone hanno perso lavoro e fonti di sostentamento. I prezzi dei prodotti alimentari essenziali sono aumentati, mentre la valuta nazionale, il kyat, è crollata, facendo salire il prezzo delle importazioni, compresi i fertilizzanti e la benzina, con conseguenze enormi sui costi di trasporto interno.

I servizi pubblici sono in grande difficoltà. Medici e insegnanti sono stati in prima linea nel movimento di disobbedienza civile, e molti continuano a rifiutarsi di lavorare sotto la giunta militare. Chi invece continua a lavorare affronta violente ritorsioni da parte delle comunità locali. Il risultato è un sistema sanitario allo sbando. Una fotografia simile è quella delle scuole, per la maggior parte chiuse o con pochi insegnanti, e ancor meno studenti.

Gran parte della popolazione, città incluse, sta scivolando verso la povertà e l'insicurezza alimentare. Secondo Save the Children, nell'ultimo anno almeno 150.000 bambini sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, ridotti a vivere nella giungla, in rifugi improvvisati, ed esposti a fame, rischi e malattie. Mentre dati recenti delle Nazioni Unite mostrano che, da quando i militari hanno preso il potere, sono almeno 405.700 gli sfollati a causa dei combattimenti, una cifra che è aumentata del 27% solo nell'ultimo mese. Così mentre l’escalation militare continua ad intensificarsi, il Paese resta in balia di sé stesso, con il Tatmadaw ormai incapace di governarlo.

 

La comunità internazionale tra indifferenza e iniziative regionali

Dopo molte pressioni anche la francese Total e la statunitense Chevron, due dei più grandi conglomerati energetici al mondo e fra i pochi rimasti nel paese, hanno deciso d’interrompere tutte le attività in Myanmar. Difficile dire se la scelta sia stata fatta perché effettivamente i due colossi del petrolio ritenevano la situazione ingestibile, o se per una questione di rispetto dei diritti umani. Quel che è certo è che per il regime si tratta di una grave perdita economica e di un ulteriore fattore di indebolimento.

Più in generale, però, sul fronte internazionale il Paese è sempre meno al centro della scena. Prima la crisi afghana, poi quella ucraina e lo scontro fra il mondo occidentale e le autocrazie hanno distolto risorse e attenzione mediatica dall’ex Birmania. L’Asean, l’associazione del sud est asiatico, da poco passata sotto la presidenza della Cambogia, stretta alleata della Cina, ha ammorbidito i toni nei confronti di Naypyitaw. Dopo lunghi negoziati interni, Indonesia, Malesia e Singapore erano riusciti ad ottenere un’intesa (in cinque punti) per mettere sotto una certa pressione il Myanmar, escludendo anche il leader militare Min Aung Hlaing dai vertici Asean. A inizio gennaio, però, fra molte polemiche, il primo Ministro cambogiano Hun Sen si è invece recato in visita in Myanmar. Nulli i risultati ottenuti, com’era facile precedere.

Si tratta di una partita complicata anche per la Cina. Pechino è pragmaticamente interessata alla stabilità del Paese, ma non sembra avere alcuna carta vincente per risolvere la situazione. Nel frattempo, nell’indifferenza generale della comunità internazionale, la generazione Z del Myanmar è la più impegnata nella resistenza, continua a combattere e a morire nella consapevolezza di poter contare solo sulle proprie forze.

 

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