20 Lug 2023

Afghanistan: ritornano le esecuzioni capitali

La conferma della “linea dura” talebana è arrivata con la notizia di una seconda esecuzione capitale documentata

L’Emirato islamico è tornato ai tempi delle esecuzioni pubbliche: i Talebani al governo di Kabul dall’estate 2021 non hanno nessuna intenzione di ascoltare le invocazioni della comunità internazionale e fare qualche minimo passo indietro nell’applicazione rigidissima della legge coranica. La conferma della “linea dura” è arrivata con la notizia di una seconda esecuzione capitale documentata: un uomo indicato come Muhammad Ajmal è stato giustiziato – con la fucilazione, secondo testimoni indicati dalla stampa locale – nella moschea di Eidgah a Metharlam, nella provincia di Laghman. Era stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di cinque persone, tutte della stessa famiglia. Secondo il tribunale supremo dei Talebani il verdetto era stato confermato in tre diverse istanze, e anche il leader supremo, il mullah Habaitullah Ahkundzada, aveva approvato la sentenza.

Pochi mesi prima di Muhammad Ajmal era toccato a Tajmir, “figlio di Ghulam Sarwar”, originario della zona di Herat, giustiziato per rapina e omicidio nello stadio di Farah. In realtà questi due casi sono stati pubblicizzati dagli stessi integralisti, ma l’agenzia delle Nazioni Unite UNAMA ha già riferito con allarme di altre sentenze (una portata a termine nella provincia di Laghman, altre sospese). Il report dell’ONU segnala anche altri abusi, e sulla stampa filtrano notizie di fustigazioni pubbliche, annunciate soltanto nelle città, per un “fine educativo”, ma con il divieto di diffondere le informazioni. 

Il “nuovo corso”, con il ritorno alla massima severità, era stato annunciato nel maggio scorso da Abdul Malik Haqqani, vicepresidente della Corte suprema di Kabul. Il leader talebano aveva ordinato alle corti di eseguire le 175 sentenze già emesse di Qisa (retribuzione, secondo la legge del taglione), 79 sentenze di Diyat (compensazione finanziaria per delitti di sangue) e 37 Rajm (lapidazioni). 

L’evoluzione in senso repressivo non è inaspettata. Il regime fondamentalista ha da subito disatteso anche gli accordi di Doha con gli Stati Uniti: in Qatar la delegazione talebana aveva garantito di non accogliere sul territorio afghano gruppi terroristici capaci di attentati all’estero, pretendendo in cambio la partenza completa dei contingenti militari stranieri. Poi i servizi statunitensi hanno individuato a Kabul la presenza di  Ayman al Zawahiri, leader di Al Qaeda ospitato in una residenza della capitale la cui proprietà risale a un collaboratore di Sirajuddin Haqqani, uno dei massimi comandanti degli “studenti coranici”. Al Zawahiri è stato ucciso con l’attacco di un drone, ma assieme  a lui è scomparsa ogni illusione sull’atteggiamento dei talebani. 

L’ulteriore indurimento dei costumi, che comprende un “giro di vite” sull’istruzione femminile, di fatto rischia di mettere ancora di più in rotta di collisione le autorità di Kabul con i possibili fornitori di aiuto umanitario. Secondo Martin Griffith, sotto-segretario generale per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, il 97 per cento della popolazione afghana vive in povertà, e venti milioni di persone sono alla fame. E secondo la Banca mondiale il reddito pro capite sta calando ulteriormente. 

In un contesto del genere, la necessità di un intervento di solidarietà esterno sembra urgente. Ma questa prospettiva si scontra con la realtà sul terreno, che comprende fra l’altro il divieto alle organizzazioni non governative di utilizzare personale femminile. Gli ostacoli posti da una visione così radicale a un’azione internazionale efficace sono sicuramente molto evidenti anche al governo degli integralisti. E l’emergenza sul terreno resta molto difficile da fronteggiare senza aiuto. Dunque una spiegazione possibile delle scelte di repressione potrebbe essere una strategia del regime che in sostanza faccia a meno dell’Occidente: l’idea che i talebani vogliano imporre con il pugno di ferro la loro visione fondamentalista fino all’ultimo dettaglio, anche a costo di una brutalità accentuata verso la popolazione, mentre allo stesso tempo aprono canali di cooperazione politico economica con paesi interessati all’Afghanistan per obiettivi geopolitici, ma meno sensibili ai temi delle libertà civili e dei diritti umani. 

Un segnale in questo senso viene dalla lenta ma progressiva rivendicazione delle ambasciate: secondo lo stesso portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid il governo dell’Emirato ha mandato i suoi diplomatici in Iran, in Turchia, in Pakistan, in Russia, in Cina, in Kazakhstan e in alcuni paesi arabi. Se la collaborazione con Teheran era operativa in chiave anti-americana negli anni della presenza internazionale, ma negli ultimi è peggiorata per le dispute sulle risorse idriche, quella con Pechino è anch’essa rodata con uno sfondo economico molto palese, tanto che il governo cinese sta cercando di coinvolgere l’Afghanistan nella sua Belt and Road Initiative.  Adesso, secondo indiscrezioni della stampa indiana, si avvia un tentativo di normalizzare le relazioni – anche in chiave anti-pakistana – con New Delhi. La riapertura dei rapporti con l’Occidente può aspettare.

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